domenica 27 dicembre 2009
giovedì 24 dicembre 2009
Buon Natale!
martedì 22 dicembre 2009
giovedì 17 dicembre 2009
Elio e le storie tese Christmas with the yours
leavin' the refreshing world of Christmas
venerdì 4 dicembre 2009
Inneres Auge Franco Battiato
Appello sulla giustizia: "Ecco perché non possiamo tacere"
Caro ministro Sandro Bondi, la ringrazio per la sua lettera e per l'attenzione data al mio lavoro: ho apprezzato il suo tono rispettoso e dialogante non scontato di questi tempi e quindi con lo stesso tono e attitudine al dialogo le voglio rispondere. Come credo sappia, ho spesso ribadito che certe questioni non possono né devono essere considerate appannaggio di una parte politica. Ho anche sempre inteso la mia battaglia come qualcosa di diverso da una certa idea di militanza che si riconosce integralmente in uno schieramento.
Ho sempre creduto che debbano appartenere a tutti i principi che anche lei nomina - la libertà, la giustizia, la dignità dell'uomo e io aggiungo anche il diritto alla felicità in qualsiasi tipo di società si trovi a vivere. E per questo ho sempre odiato la prevaricazione del potere, che esso assuma la forma di un sistema totalitario di qualsiasi colore, o, come ho potuto sperimentare sin da adolescente, sotto la forma del sistema camorristico.
Anch'io auspico che in Italia possa tornare un clima più civile e ho più volte teso la mano oltre gli steccati politici perché sono convinto che una divisione da contrada per cui reciprocamente ci si denigra e delegittima a blocchi, sia qualcosa che faccia male.
Eppure oggi il clima in questo paese è di tensione perché ognuno sa che, a seconda della posizione che intende assumere nei confronti del governo, potrà vedere la propria vita diffamata, potrà vedere ogni tipo di denigrazione avvenire nei confronti dei propri cari, potrà vedere ostacolate le proprie possibilità lavorative.
Qualche giorno fa la Germania mi ha onorato del premio Scholl, alla memoria dei due studenti dell'organizzazione cristiana Rosa Bianca, fratello e sorella, giustiziati dai nazisti con la decapitazione per la loro opposizione pacifica, per aver solo scritto dei volantini e aver invitato i tedeschi a non farsi imbavagliare.
Tutte le persone che ho incontrato lì alla premiazione, all'Università di Monaco, erano preoccupate per quanto accade oggi in Italia nel campo della libertà di stampa e del diritto. Non era un premio di pericolosi sovversivi o di chissà quali cospiratori anti-italiani. Tutt'altro. Raccoglieva cristiani tedeschi bavaresi che commemorano i loro martiri. Tutti seriamente preoccupati quello che sta accadendo in Italia e tutti pronti a chiedermi come faccio a tenere alla libertà d'espressione eppure a continuare a lavorare in Italia.
Non è un buon segnale e, in quanto scrittore non posso che raccogliere l'imbarazzo di essere accolto come una sorta di intellettuale di un paese dove la libertà d'espressione subisce un'eccezione. Il programma da lei apprezzato ha mostrato, in prima serata, il terrore causato dal regime comunista russo, e persecuzioni castriste agli scrittori cubani e l'inferno nell'Iran di Ahmedinejad.
Tutto andato in onda in una trasmissione come "Che tempo che fa", su una rete come RaiTre, così spesso tacciata di essere faziosa, ideologizzata, asservita alla sinistra che persino un boss come Sandokan si compiaceva di chiamarla "Telekabul". Questo a dimostrare, Ministro, quanto siano spesso pretestuose e false le accuse che vengono fatte contro chi invece si prefigge il compito di raccontare per bisogno - o dovere - di verità.
Però sono altrettanto convinto che a volte, proprio per semplice senso civile, non si possa stare zitti. Che bisogna prendere posizione al costo di schierarsi. E schierarsi non significa ideologicamente. La paura che questa legge possa colpire il paese sia per i suoi effetti pratici, sia per l'ingiustizia che ratifica, in me è assolutamente reale e per niente pretestuosa.
In questi anni, ossia da quando vivo sotto scorta, ho avuto modo di poter approfondire cosa significhi, tradotto nel funzionamento di uno stato democratico, il concetto di giustizia. Ho potuto capire che non tocca solo la difesa della legalità, ma che ciò che più lo sostiene e lo rende funzionante è la salvaguardia del diritto e dello stato di diritto.
Ho deciso di pubblicare quell'appello perché la legge sul processo breve mi pare un attacco pesante - non il primo, ma quello che ritengo essere finora il più incisivo - ai danni di un bene fondamentale per tutti i cittadini italiani, di destra o di sinistra, come ho scritto e come credo veramente. E le assicuro che lo rifarei domani, senza timore di essere ascritto a una parte e di poterne pagare le conseguenze.
Non vi è nulla in quel gesto che non corrisponda a ogni altra cosa che ho fatto o detto. Le mie posizioni sono queste e del resto non potrei comportarmi diversamente. Ciò che mi spinge a raccontare, in prima serata, dei truci omicidi di due giovani donne, la cui colpa era stata unicamente l'aver manifestato in piazza, in maniera pacifica.
Ciò che mi spinge a raccontare dei crimini del comunismo in Russia e dei soprusi delle multinazionali in Africa non è un "farsi impadronire dal demone della politicizzazione e della partitizzazione della cultura" bensì un altro demone. Quello che ha lo scopo di raccontare le verità o almeno provarci. Un'informazione scomoda per chi la da e per chi l'ascolta, la osserva, la legge. In Italia la deriva che lo stato di diritto sta prendendo è pericolosa perché ha tutte le caratteristiche dell'irreversibilità. È per questo che agisco in questo modo, perché è l'unico modo che conosco per essere scrittore, è questo l'unico modo che conosco di essere uomo.
La saluto con cordialità
Roberto Saviano
lunedì 30 novembre 2009
giovedì 26 novembre 2009
mercoledì 11 novembre 2009
giovedì 5 novembre 2009
INGREDIENTI DEL VACCINO H1N1
1) Il vaccino anti-suina di GlaxoSmithKline Plc Tra i suoi ingredienti:
Adiuvante alluminio (componente che danneggia il sistema immunitario e crea gravi disfunzioni cognitive), AS03: squalene (adiuvante che causa infiammazioni alle giunture, lupus e “sindrome da affaticamento cronico”), Daronrix (vaccino della Glaxo contro l’influenza aviaria), Formaldeide (nota sostanza cancerogena e tossica per l’apparato riproduttivo e per lo sviluppo), Octoxynol 10 (emulsionante, umidificante e antischiuma che può alterare l’attività metabolica, danneggiare le membrane e causare un rapido declino delle funzioni delle cellule), Polisorbato 80 (ingrediente noto per provocare infertilità, convulsioni epilettiche, aborti spontanei, e shock anafilattici anche mortali), Thimerosal (a base di mercurio, 50 volte più tossico del mercurio stesso, causa di gravi disfunzioni del sistema immunitario, neurologico e turbe motorie e comportamentali).
2) Cevalpan, il vaccino anti-suina di Baxter International Tra i suoi ingredienti:
Cellule Vero (cellule in coltura dal rene di una scimmia africana, prodotte in maniera molto dubbia, del cui processo non si sa ancora nulla), Trometamolo (composto organico che può essere nocivo se inalato, di cui non sono stati resi noti gli effetti a lungo termine), Cloruro di sodio polisorbato 80 (vedi sopra).
3) Focetria, il vaccino di Novartis International AG Questo è il vaccino attualmente in distribuzione in Italia. Tra i suoi ingredienti figurano:
mercoledì 4 novembre 2009
lunedì 2 novembre 2009
Il mio amico Ken
La prima volta che ho visto Ken è stato 5 anni fa.
Erano circa le sei di sera; la mia giornata al dispensario delle suore era appena finita e stavo leggendo sui gradini della missione, aspettando di andare a cena.
Dopo i saluti di rito, mi ha chiesto cosa stessi leggendo.
"Ora come glielo spiego chi è Harry Potter?" mi domandai mentre cercavo nella mia mente qualcosa di vagamente paragonabile alla realtà africana.
Gli dissi che non sapevo spiegarglielo e lui allora mi prese il libro dalle mani per leggere il titolo.
"Ah, Harry Potter! Il mago bambino che a voi bianchi piace tanto... Ho letto sul giornale che l'autrice del libro è divenata più ricca della regina d'Inghilterra...ma è vero?"
Oddio, sapeva chi fosse Harry Potter! L'avrei eletto seduta stante Presidente del Kenya!
Elisa, la mia migliore amica (che odia H.P.), ci guardava incredula mentre iniziavamo una discussione filosofica sul maghetto, gli stregoni africani e i miliardi della Rowling.
Nelle settimane successive, l'avrei visto innamorarsi di Elisa...e lei di lui...tanto da lasciare tutto per andare a vivere nel favoloso e sperduto villaggio di Macalder.
Ricordo le nostre prime chiacchierate; le mie preoccupazioni per Elisa... le sue rassicurazioni, la sua intelligenza e le sue attenzioni per noi bianche.
Poi per 5 anni solo degli spassossimi sms in swahilinglese e quache saluto al telefono, in attesa di parlare con Elisa.
Non vedevo Ken da un sacco di tempo.
Elisa, prima di partire, ci ha chiesto di pensare ad un corso di educazione sessuale per le ragazzine della scuola di cui Ken è vice-preside ed insegnate.
Non avevo mai visto Ken al lavoro, nè tanto meno la "sua" scuola...che è uguale a tutte le altre: vecchia, scassata e senza nulla dentro.
Il primo giorno del corso mi veniva da piangere nel pensando a dove lavorava: la sua intelligenza e bravura mi sembravano sprecate, in un posto come quello.
Ken ci aveva chiesto di insegnare alle ragazze qualche gioco, durante le ore libere.
Abbiamo deciso di iniziare con il semplicissimo "Bandierina", chiedendo a lui di tradurre le regole in Luo, il dialetto delle ragazze.
45 minuti di spiegazione sotto il sole cocente. Io ero allucinata dalla evidente difficoltà delle ragazze nel capire quello che per me era il gioco più facile dell'universo.
Ken deve aver percepito il mio sgomento e mi ha semplicemente detto: " Bea, loro non sono abituate. Anche il gioco è una cosa che si impara, se hai chi te lo insegna".
Qaunte cose diamo per scontate solo perchè le abbiamo sempre avute!
E poi ancora una volta la mia meraviglia nel vedere le ragazzine correre come matte a piedi scalzi, su una terra rossa e pietrosa; dover dir loro, di stare in riga, di non trusciare e che l'arbitro ha sempre ragione...
E' vero che siamo tutti uguali se ci vengono date le stesse opportunità.
Tornando a casa, Ken mi ha semplicemente detto: "Credo che tu oggi abbia capito perchè il mio posto è qui. Lo faccio per loro. Ne hanno il diritto".
Ken è un amico molto importante per me.
Ma non solo. E' la persona che mi ha fatto capire che l'Africa ce la farà...pole pole...piano piano, ma ce la farà.
sabato 17 ottobre 2009
Roberto Saviano: "Io, la mia scorta e il senso di solitudine"
"LO VEDI, stanno iniziando ad abbandonarci. Lo sapevo". Così il mio caposcorta mi ha salutato ieri mattina. Il dolore per la protezione che cercano di farmi pesare, di farci pesare, era inevitabile. La sensazione di solitudine dei sette uomini che da tre anni mi proteggono mi ha commosso. Dopo le dichiarazioni del capo della mobile di Napoli che gettano discredito sul loro sacrificio, che mettono in dubbio le indagini della Dda di Napoli e dei Carabinieri, la sensazione che nella lotta ai clan si sia prodotta una frattura è forte.
Non credo sia salutare spaccare in due o in più parti un fronte che dovrebbe mostrarsi, e soprattutto sentirsi, coeso. Società civile, forze dell'ordine, magistratura. Ognuno con i suoi ruoli e compiti. Ma uniti. Purtroppo riscontro che non è così. So bene che non è lo Stato nel suo complesso, né le figure istituzionali che stanno al suo vertice a voler far mancare tale impegno unitario. Sono grato a chi mi ha difeso in questi anni: all'arma dei Carabinieri che in questi giorni ha mantenuto il silenzio per rispetto istituzionale ma mi ha fatto sentire un calore enorme dicendomi "noi ci saremo sempre".
Mi ha difeso l'Antimafia napoletana attraverso le dichiarazioni dei pm Federico Cafiero De Raho, Franco Roberti, Raffaele Cantone. Mi ha difeso il capo della Polizia Antonio Manganelli con le sue rassicurazioni e la netta smentita di ciò che era stato detto da un funzionario. Mi ha difeso il mio giornale. Mi hanno difeso i miei lettori.
Ma uno sgretolamento di questa compattezza è malgrado tutto avvenuto e un grande quotidiano se ne è fatto portavoce. Ciò che dico e scrivo è il risultato spesso di diversi soggetti, di cui le mie parole si fanno portavoce. Ma si cerca di rompere questa nostra alleanza, insinuando "tanti lavorano nell'ombra senza riconoscimento mentre tu invece...". Chi fa questo discorso ha un unico scopo, cercare di isolare, di interrompere il rapporto che ha permesso in questi anni di portare alla ribalta nazionale e internazionale molte inchieste e realtà costrette solo alla cronaca locale.
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Sento di essere antipatico ad una parte di Napoli e ad una parte del Paese, per ciò che dico per come lo dico per lo spazio mediatico che cerco di ottenere. Sono fiero di essere antipatico a questa parte di campani, a questa parte di italiani e a molta parte dei loro politici di riferimento. Sono fiero di star antipatico a chi in questi giorni ha chiamato le radio, ha scritto sui social forum "finalmente qualcuno che sputa su questo buffone". Sono fiero di star antipatico a queste persone, sono fiero di sentire in loro bruciare lo stomaco quando mi vedono e ascoltano, quando si sentono messi in ombra. Non cercherò mai i loro favori, né la loro approvazione. Sono sempre stato fiero di essere antipatico a chi dice che la lotta alla criminalità è una storia che riguarda solo pochi gendarmi e qualche giudice, spesso lasciandoli soli.
Sono sempre stato fiero di essere antipatico a quella Napoli che si nasconde dietro i musei, i quadri, la musica in piazza, per far precipitare il decantato rinascimento napoletano in un medioevo napoletano saturo di monnezza e in mano alle imprenditorie criminali più spietate. Sono sempre stato antipatico a quella parte di Napoli che vota politici corrotti fingendo di credere che siano innocui simpaticoni che parlano in dialetto. Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi dice: "Si uccidono tra di loro", perché contiamo troppe vittime innocenti per poter continuare a ripetere questa vuota cantilena.
Perché così permettiamo all'Italia e al resto del mondo di chiamarci razzisti e vigliacchi se non prestiamo soccorso a chi tragicamente intercetta proiettili non destinati a lui. Come è accaduto a Petru Birladeanu, il musicista ucciso il 26 maggio scorso nella stazione della metropolitana di Montesanto che non è stato soccorso non per vigliaccheria, ma per paura.
Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi mal sopporta che vada in televisione o sulle copertine dei giornali, perché ho l'ambizione di credere che le mie parole possano cambiare le cose se arrivano a molti.
E serve l'attenzione per aggregare persone. Sarò sempre fiero di avere questo genere di avversari. I più disparati, uniti però dal desiderio che nulla cambi, che chi alza la testa e la voce resti isolato e venga spazzato via com'è successo già troppe volte. Che chi "opera" sulle vicende legate alla criminalità organizzata e all'illegalità in generale, continui a farlo, ma in silenzio, concedendo giusto quell'attenzione momentanea che sappia sempre un po' di folklore. E se percorriamo a ritroso gli ultimi trent'anni del nostro Paese, come non ricordare che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani - esposti molto più di me e che prima di me hanno detto verità ora alla portata di tutti - hanno pagato con la vita la loro solitudine. E la volontà di volerli ridurre, in vita, al silenzio.
Sono sempre stato fiero, invece, di essere stato vicino a un'altra parte di Napoli e del Sud. Quella che in questi anni ha approfittato della notorietà di qualcuno emerso dalle sue fila per dar voce al proprio malessere, al proprio impegno, alle proprie speranze. Molti di loro mi hanno accolto con diffidenza, una diffidenza che a volte ha lasciato il posto a stima, altre a critiche, ma leali e costruttive. Sono fiero che a starmi vicino siano stati i padri gesuiti che mi hanno accolto, le associazioni che operano sul territorio con cui abbiamo fatto fronte comune e tante, tantissime persone singole.
Sono fiero che a starmi vicino sia soprattutto chi, ferocemente deluso dal quindicennio bassoliniano, cerca risposte altrove, sapendo che dalla politica campana di entrambe le parti c'è poco da aspettarsi. Sono sempre stato fiero che vicino a me ci siano tutti quei campani che non ne possono più di morire di cancro e vedere che a governare siano arrivati politici che negli anni hanno sempre spartito i propri affari con le cosche. Facendo, loro sì, soldi e carriera con i rifiuti e col cemento, creando intorno a sé un consenso acquistato con biglietti da cento euro.
È stato doloroso vedere infrangersi un fronte unico, costruito in questi anni di costante impegno, che aveva permesso di mantenere alta l'attenzione sui fatti di camorra. È stato sconcertante vedere persone del tutto estranee alla mia vicenda esprimere giudizi sulla legittimità della mia scorta. La protezione si basa su notizie note e riservate che, deontologia vuole, non vengano rese pubbliche. Sono stato costretto a mostrare le ferite, a chiedere a chi ha indagato di poter rendere pubblico un documento in cui si parla esplicitamente di "condanna a morte". Cose che a un uomo non dovrebbero mai essere chieste.
Ho dovuto esibire le prove dell'inferno in cui vivo. Ho esibito, come richiesto, la giusta causa delle minacce. Sento profondamente incattivito il territorio, incarognito. Gli uni con gli altri pronti a ringhiarsi dietro le spalle. Molti hanno iniziato a esprimere la propria opinione non conoscendo fatti, non sapendo nulla. Vomitando bile, opinioni qualcuno addirittura ha detto "c'è una sentenza del Tribunale che si è espressa contro la scorta". I tribunali non decidono delle scorte, perché tante bugie, idiozie, falsità? Addirittura i sondaggi online che chiedevano se era giusto o meno darmi la scorta.
Quanto piacere hanno avuto i camorristi, il loro mondo, lì ad osservare questo sputare ognuno nel bicchiere dell'altro? Dal momento in cui mi è stata assegnata una protezione, della mia vita ha legittimamente e letteralmente deciso lo Stato Italiano. Non in mio nome, ma nel nome proprio: per difendere se stesso e i suoi principi fondamentali. Tutte le persone che lavorano con la parola e sono scortate in Italia, sono protette per difendere un principio costituzionale: la libertà di parola. Lo Stato impone la difesa a chi lotta quotidianamente in strada contro le organizzazioni criminali. Lo Stato impone la difesa a magistrati perché possano svolgere il loro lavoro sapendo che la loro incolumità fa una grande differenza.
Lo Stato impone la difesa a chi fa inchieste, a chi scrive, a chi racconta perché non può permettere che le organizzazioni criminali facciano censura. In questi anni, attaccarmi come diffamatore della mia terra, cercare di espormi sempre di più parlando della mia sicurezza, è un colpo inferto non a me, ma allo stato di salute della nostra democrazia e a tutte le persone che vivono la mia condizione. Sento questo odio silenzioso che monta intorno a me crea consenso in molte parti
Sta cercando il consenso di certa classe dirigente del Sud che con il solito cinismo bilioso considera qualunque tentativo di voler rendere se non migliore, almeno consapevole la propria terra, una strategia per fare soldi o carriera.
Ma mi viene chiesta anche l'adesione a un "codice deontologico", come ha detto il capo della Mobile di Napoli, il rispetto delle regole. Quali regole? Io non sono un poliziotto, né un carabiniere, né un magistrato. Le mie parole raccontano, non vogliono arrestare, semmai sognano di trasformare. E non avrò mai "bon ton" nei confronti delle organizzazioni criminali, non accetterò mai la vecchia logica del gioco delle parti fra guardie e ladri. I camorristi sanno che alcuni di loro verranno arrestati, le forze dell'ordine sanno in che modo gestire gli arresti che devono fare.
Lo hanno sempre detto a me, ora sono io a ribadirlo: a ognuno il suo ruolo. La battaglia che porto avanti come scrittore è un'altra. È fondata sul cambiamento culturale della percezione del fenomeno, non nel rubricarlo in qualche casellario giudiziario o considerarlo principalmente un problema di ordine pubblico.
Continuare a vivere in una situazione così è difficile, ma diviene impossibile se iniziano a frapporsi persone che tentano di indebolire ciò che sino a ieri era un'alleanza importante, giusta e necessaria. So che è molto difficile vivere la realtà campana, ma c'è qualcuno che ci riesce con tranquillità. Io non ho mai avuto detenuti che mi salutassero dalle celle, né me ne sarei mai vantato, anzi, pur facendo lo scrittore, ho ricevuto solo insulti. Qualcuno dice a Napoli che è riuscito a fare il poliziotto riuscendo a passeggiare liberamente con moglie e figli senza conseguenze. Buon per lui che ci sia riuscito. Io non sono riuscito a fare lo scrittore riuscendo a passeggiare liberamente con la mia famiglia. Un giorno ci riuscirò lo giuro.
lunedì 5 ottobre 2009
venerdì 2 ottobre 2009
martedì 29 settembre 2009
Quel sangue del Sud versato per il Paese
Vengo da una terra di reduci e combattenti. E l'ennesima strage di soldati non l'accolgo con la sorpresa di chi, davanti a una notizia particolarmente dolorosa e grave, torna a includere una terra lontana come l'Afghanistan nella propria geografia mentale. Per me quel territorio ha sempre fatto parte della mia geografia, geografia di luoghi dove non c'è pace. Gli italiani partiti per laggiù e quelli che restano in Sicilia, in Calabria o in Campania per me fanno in qualche modo parte di una mappa unica, diversa da quella che abbraccia pure Firenze, Torino o Bolzano. Dei ventun soldati italiani caduti in Afghanistan la parte maggiore sono meridionali. Meridionali arruolati nelle loro regioni d'origine, o trasferiti altrove o persino figli di meridionali emigrati. A chi in questi anni dal Nord Italia blaterava sul Sud come di un'appendice necrotizzata di cui liberarsi, oggi, nel silenzio che cade sulle città d'origine di questi uomini dilaniati dai Taliban, troverà quella risposta pesantissima che nessuna invocazione del valore nazionale è stato in grado di dargli. Oggi siamo dinanzi all'ennesimo tributo di sangue che le regioni meridionali, le regioni più povere d'Italia, versano all'intero paese. Indipendentemente da dove abitiamo, indipendente da come la pensiamo sulle missioni e sulla guerra, nel momento della tragedia non possiamo non considerare l'origine di questi soldati, la loro storia, porci la domanda perché a morire sono sempre o quasi sempre soldati del Sud. L'esercito oggi è fatto in gran parte da questi ragazzi, ragazzi giovani, giovanissimi in molti casi. Anche stavolta è così. Non può che essere così. E a sgoccioli, coi loro nomi diramati dal ministro della Difesa ne arriva la conferma ufficiale. Antonio Fortunato, trentacinque anni, tenente, nato a Lagonegro in Basilicata. Roberto Valente, trentasette anni, sergente maggiore, di Napoli. Davide Ricchiuto, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato a Glarus in Svizzera, ma residente a Tiggiano, in provincia di Lecce. Giandomenico Pistonami, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato ad Orvieto, ma residente a Lubriano in provincia di Viterbo. Massimiliano Randino, trentadue anni, caporalmaggiore, di Pagani, provincia di Salerno. Matteo Mureddu, ventisei anni, caporalmaggiore, di Solarussa, un paesino in provincia di Oristano, figlio di un allevatore di pecore. Due giorni fa Roberto Valente stava ancora a casa sua vicino allo stadio San Paolo, a Piedigrotta, a godersi le ultime ore di licenza con sua moglie e il suo bambino, come pure Massimiliano Radino, sposato da cinque anni, non ancora padre.
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Erano appena sbarcati a Kabul, appena saliti sulle auto blindate, quei grossi gipponi "Lince" che hanno fama di essere fra i più sicuri e resistenti, però non reggono alla combinazione di chi dispone di tanto danaro per imbottire un'auto di 150 chili di tritolo e di tanti uomini disposti a farsi esplodere. Andando addosso a un convoglio, aprendo un cratere lunare profondo un metro nella strada, sventrando case, macchine, accartocciando biciclette, uccidendo quindici civili afgani, ferendone un numero non ancora precisato di altri, una sessantina almeno, bambini e donne inclusi. E dilaniando, bruciando vivi, cuocendo nel loro involucro di metallo inutilmente rafforzato i nostri sei paracadutisti, due dei quali appena arrivati. Partiti dalla mia terra, sbarcati, sventrati sulla strada dell'aeroporto di Kabul, all'altezza di una rotonda intitolata alla memoria del comandante Ahmad Shah Massoud, il leone del Panjshir, il grande nemico dell'ultimo esercito che provò ad occupare quell'impervia terra di montagne, sopravvissuto alla guerra sovietica, ma assassinato dai Taliban. Niente può dirla meglio, la strana geografia dei territori di guerra in cui oggi ci siamo svegliati tutti per la deflagrazione di un'autobomba più potente delle altre, ma che giorno dopo giorno, quando non ce ne accorgiamo, continua a disegnare i suoi confini incerti, mobili, slabbrati. Non è solo la scia di sangue che unisce la mia terra a un luogo che dalle mie parti si sente nominare storpiato in Affanìstan, Afgrànistan, Afgà. E' anche altro. Quell'altro che era arrivato prima che dai paesini della Campania partissero i soldati: l'afgano, l'hashish migliore in assoluto che qui passava in lingotti e riempiva i garage ed è stato per anni il vero richiamo che attirava chiunque nelle piazze di spaccio locali. L'hashish e prima ancora l'eroina e oggi di nuovo l'eroina afgana. Quella che permette ai Taliban di abbondare con l'esplosivo da lanciare contro ai nostri soldati coi loro detonatori umani. E' anche questo che rende simili queste terre, che fa sembrare l'Afganistan una provincia dell'Italia meridionale. Qui come là i signori della guerra sono forti perché sono signori di altro, delle cose, della droga, del mercato che non conosce né confini né conflitti. Delle armi, del potere, delle vite che con quel che ne ricavano, riescono a comprare. L'eroina che gestiscono i Taliban è praticamente il 90% dell'eroina che si consuma nel mondo. I ragazzi che partono spesso da realtà devastate dai cartelli criminali hanno trovato la morte per mano di chi con quei cartelli criminali ci fa affari. L'eroina afgana inonda il mondo e finanzia la guerra dei Taliban. Questa è una delle verità che meno vengono dette in Italia. Le merci partono e arrivano, gli uomini invece partono sempre senza garanzia di tornare. Quegli uomini, quei ragazzi possono essere nati nella Svizzera tedesca o trasferiti in Toscana, ma il loro baricentro rimane al paese di cui sono originari. È a partire da quei paesini che matura la decisione di andarsene, di arruolarsi, di partire volontari. Per sfuggire alla noia delle serate sempre uguali, sempre le stesse facce, sempre lo stesso bar di cui conosci persino la seduta delle sedie usurate. Per avere uno stipendio decente con cui mettere su famiglia, sostenere un mutuo per la casa, pagarsi un matrimonio come si deve, come aveva già organizzato prima di essere dilaniato in un convoglio simile a quello odierno, Vincenzo Cardella, di San Prisco, pugile dilettante alla stessa palestra di Marcianise che ha appena ricevuto il titolo mondiale dei pesi leggeri grazie a Mirko Valentino. Anche lui uno dei ragazzi della mia terra arruolati: nella polizia, non nell'esercito. Arruolarsi, anche, per non dover partire verso il Nord, alla ricerca di un lavoro forse meno stabile, dove sono meno certe le licenze e quindi i ritorni a casa, dove la solitudine è maggiore che fra i compagni, ragazzi dello stesso paese, della stessa regione, della stessa parte d'Italia. E poi anche per il rifiuto di finire nell'altro esercito, quello della camorra e delle altre organizzazioni criminali, quello che si gonfia e si ingrossa dei ragazzi che non vogliono finire lontani. E sembra strano, ma per questi ragazzi morti oggi come per molti di quelli caduti negli anni precedenti, fare il soldato sembra una decisione dettata al tempo stesso da un buon senso che rasenta la saggezza perché comunque il calcolo fra rischi e benefici sembra vantaggioso, e dalla voglia di misurarsi, di dimostrare il proprio valore e il proprio coraggio. Di dimostrare, loro cresciuti fra la noia e la guerra che passa o può passare davanti al loro bar abituale fra le strade dei loro paesini addormentati, che "un'altra guerra è possibile". Che combattere con una divisa per una guerra lontana può avere molta più dignità che lamentarsi della disoccupazione quasi fosse una sventura naturale e del mondo che non gira come dovrebbe, come di una condizione immutabile. Sapendo che i molti italiani che li chiameranno invasori e assassini, ma pure gli altri che li chiameranno eroi, non hanno entrambi idea di che cosa significhi davvero fare il mestiere del soldato. E sapendo pure che, se entrambi non ne hanno idea e non avrebbero mai potuto intraprendere la stessa strada, è perché qualcuno gliene ne ha regalate di molto più comode, certo non al rischio di finire sventrati da un'autobomba. Infatti loro, le destinazioni per cui partono, non le chiamano "missione di pace". Forse non lo sanno sino in fondo che nelle caserme dell'Afghanistan possono trovare la stessa noia o la stessa morte che a casa. Ma scelgono di arruolarsi nell'esercito che porta la bandiera di uno Stato, in una forza che non dispone della vita e della morte grazie al denaro dei signori della guerra e della droga. Per questo, mi augurerei che anche chi odia la guerra e ritiene ipocrita la sua ridefinizione in "missione di pace", possa fermarsi un attimo a ricordare questi ragazzi. A provare non solo dolore per degli uomini strappati alla vita in modo atroce, ma commemorarli come sarebbe piaciuto a loro. A onorarli come soldati e come uomini morti per il loro lavoro. Quando è arrivata la notizia dell'attentato, un amico pugliese mi ha chiamato immediatamente e mi ha detto: "Tutti i ragazzi morti sono nostri". Sono nostri è come per dire sono delle nostre zone. Come per Nassiriya, come per il Libano ora anche per Kabul. E che siano nostri lo dimostriamo non nella retorica delle condoglianze ma raccontando cosa significa nascere in certe terre, cosa significa partire per una missione militare, e che le loro morti non portino una sorta di pietra tombale sulla voglia di cambiare le cose. Come se sui loro cadaveri possa celebrarsi una presunta pacificazione nazionale nata dal cordoglio. No, al contrario, dobbiamo continuare a porre e porci domande, a capire perché si parte per la guerra, perché il paese decide di subire sempre tutto come se fosse indifferente a ogni dolore, assuefatto ad ogni tragedia. Queste morti ci chiedono perché tutto in Italia è sempre valutato con cinismo, sospetto, indifferenza, e persino decine e decine di morti non svegliano nessun tipo di reazione, ma solo ancora una volta apatia, sofferenza passiva, tristezza inattiva, il solito "è sempre andata così". Questi uomini del Sud, questi soldati caduti urlano alle coscienze, se ancora ne abbiamo, che le cose in questo paese non vanno bene, dicono che non va più bene che ci si accorga del Sud e di cosa vive una parte del paese solo quando paga un alto tributo di sangue come hanno fatto oggi questi sei soldati. Perché a Sud si è in guerra. Sempre.
giovedì 24 settembre 2009
Plastic 0%
- Andare al supermercato forniti di una busta di juta o carta o altro materiale per evitare di farsi dare ( e in molti casi pagare) dalla cassiera sei mila borse di plastica per mettere dentro la spesa.
- Fare attenzione a ciò che si compra: spesso i prodotti sono contenuti in imballaggi plasticosi spropositati. Un esempio: la frutta e la verdura già confezionata nelle vaschette e poi imballata nel cellophane... se la compriamo sciolta eviteremo almeno la vaschetta.
- Se andiamo in un negozio per acquistare qualcosa, evitiamo di farci dare la borsa di plastica se non assolutamente indispensabile.
- Preferire sempre i contenitori in vetro per succhi, bibite, acqua, yogurt e altri prodotti. Impariamo a riutilizzare le bottigliette d'acqua riempiendole dal rubinetto. Per chi ama l'acqua frizzante, esistono bellissime macchinette (costo 70 euro) per "gasare" l'acqua del rubinetto.
- Laviamoci con le saponette...ne esistono di tutti i tipi e gusti...potremo evitare di riempirci la casa di sei mila contenitori di bagnoschiuma &C.
Ecco alcune ricette fai da te...
Ingredienti:
-bicarbonato
-acqua
-olio essenziale per profumare (opzionale)
In un bicchiere mettere dell’acqua, aggiungere bicarbonato mescolando finchè non si scioglie più e lasciare riposare una mezz’oretta. Poi travasare solo la parte liquida (avremo ottenuto una soluzione satura di bicarbonato) in uno spruzzatore (magari recuperato da un vecchio deodorante finito e ben lavato). Il deodorante è pronto!
mercoledì 16 settembre 2009
giovedì 10 settembre 2009
Per i genitori e non solo...
Cari genitori, ogni giorno parliamo della nuova influenza, e mi chiedete se sia utile e sicuro vaccinare i bambini. La mia risposta è NO! Un ‘no’ motivato e ponderato, frutto delle analisi delle conoscenze fornite dalla letteratura medica internazionale. Un ‘no’ controcorrente perché molti organismi pubblici, alcune società scientifiche e i mezzi di comunicazione trasmettono messaggi differenti: avranno le loro ragioni. Influenza stagionale e influenza A/H1N1: alcuni dati a confronto.
L’epidemia, iniziata in Messico nel 2009, è di modesta gravità: il virus A/H1N1 si è dimostrato meno aggressivo della comune influenza stagionale. Si manifesta come qualsiasi forma influenzale: febbre, mal di testa, dolori muscolari, nausea, diarrea tosse. Non sarà l’unica patologia che colpirà i bambini in questo inverno, e non sarà facile distinguerla dai circa 500 (tra tipi e sottotipi) virus capaci di infettare i bambini. I test rapidi per identificare il virus dell’influenza A hanno poca sensibilità (dal 10 al 60%). Il test quindi non garantisce con certezza se si tratti di influenza A/H1N1. Sembra però essere un virus molto contagioso, ed è stato dichiarato lo stato di pandemia. La sola parola-pandemia-fa paura. Ma questa definizione è stata appositamente modificata, facendo scomparire il criterio della gravità, cioè della mortalità che la malattia può provocare. La nuova influenza può colpire più persone, pare, ma provoca meno morti di qualunque altra influenza trascorsa. La mortalità, ossia il numero di persone morte rispetto ai casi segnalati, registrata finora nei paesi dove l’A/H1N1 è circolato ampiamente è dello 0,3% in Europa e dello 0,4% negli USA. In realtà potrebbe essere ancora inferiore. Perché generalmente i casi con sintomi lievi sfuggono alla sorveglianza (e quindi i contagiati possono essere molti di più), ed alcuni decessi possono essere dovuti ad altre cause e non al virus (anche se ad esso viene data la responsabilità). Non deve meravigliare: purtroppo si può, e si muore, di influenza, se si soffre di una patologia cronica, di una malformazione organica, di una malattia immunitaria, o se si è anziani. Le cifre variano in base alla fonte dei dati. Per esempio in Gran Bretagna sono stati registrati 30 morti su centomila casi e negli USA solo 302 su un milione di casi. Nell’inverno australe (che coincide con l’estate in Italia) in Argentina sono morte circa 350 persone, in Cile 128 ed in Nuova Zelanda 16. Quasi alla fine dell’inverno australe, sinora nel mondo intero si sono avuti 2501 decessi. Per fare un paragone, si calcola che in Spagna, durante un inverno “normale” i decessi per influenza stagionale sono circa 1500-3000. La mortalità per influenza A riguarda prevalentemente persone di età minore di 65 anni, in quanto i soggetti di età superiore sembrano avere un certo grado di protezione, a seguito di epidemie passate dovute a virus simili. Il 90% dei decessi per influenza stagionale riguarda persone sopra i 65 anni di età, l’influenza A colpisce invece prevalentemente persone di età inferiore (solo il 10% dei casi mortali si colloca nella fascia di età sopra i 65 anni). Ma, in numero assoluto, l’influenza A provoca pochi decessi tra i giovani; negli USA ogni anno muoiono per influenza stagionale circa 3600 persone sotto i 65 anni, mentre finora ne sono morte 324 nella stessa fascia di età per influenza A. In Australia ogni anno per l’influenza stagionale muoiono circa 310 persone sotto i di 65 anni. A inverno ormai terminato, ne sono morte 132 per influenza A, di cui circa 119 sotto i 65 anni. Perchè allora il panico?Quanto successo nei Paesi dell’Emisfero australe ci rassicura: l’influenza A semplicemente arriva a colpire (leggermente) molte persone. Eppure i mezzi di informazione hanno creato il panico. E’ un tipico esempio di “invenzione delle malattie” (disease mongering). Non si tratta della prima volta. Nel 2005 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva previsto fino a sette milioni di morti per l’influenza aviaria. Alla fine i morti furono 262. Si tratto’ di un gravissimo errore prognostico? Secondo una delle maggiori banche di affari del mondo (JP Morgan) l’attuale vendita di farmaci anti-influenzali e di vaccini muoverebbe un giro di oltre 10 miliardi di dollari. I medicinali funzionano?Non esiste alcun trattamento preventivo: i farmaci antivirali, Oseltamivir (Tamiflu) e Zanamivir (Relenza), non prevengono la malattia e su individui già ammalati l’azione dimostrata di questi farmaci è di poter accorciare di mezza giornata la durata dei sintomi dell’influenza. Ne’ va dimenticato che gli antivirali possono causare effetti collaterali importanti. Il 18% dei bambini in età scolare del Regno Unito, a cui è stato somministrato l’Oseltamivir contro l’A/H1N1, ha presentato sintomi neuropsichiatrici e il 40% sintomi gastroenterici. …E i vaccini?I vaccini contro il nuovo virus A/H1N1 sono ancora in fase di sperimentazione. Nessuno è in grado di sapere se e quanto saranno efficaci e sicuri, ma vengono pubblicizzati, con gran clamore. Basta che il virus cambi (per mutazione, o per riassortimento con altri virus) per rendere inefficace il vaccino già messo a punto. Sulla sicurezza sia l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) che l’Agenzia del farmaco europea (EMEA) dichiarano necessaria un’attenta sorveglianza. Alcuni vaccini sono allestiti con tecnologie nuove e saranno testati su poche centinaia di bambini e adulti volontari, e soltanto per pochi giorni. Il vaccino che meglio conosciamo, quello contro l’influenza stagionale, sappiamo che ha un’efficacia del 33% tra bambini e adolescenti e che è assolutamente inutile nei minori di due anni. Esistono anche dubbi circa la sua efficacia negli adulti e negli anziani. Non conosciamo la sicurezza del vaccino per l’influenza A, ma ricordiamo che nel 1976 negli USA fu prodotto un vaccino simile, anche allora con una gran fretta per un pericolo di pandemia, ed il risultato fu un’epidemia di reazioni avverse gravi (sindrome di Guillan-Barrè, una malattia neurologica), per cui la campagna di vaccinazione fu subito sospesa. La fretta non è mai utile, tanto più per fermare un’influenza come quella A, la cui mortalità è così bassa. Conviene non ripetere l’errore del 1976. Un’altra motivazione a favore della vaccinazione è il cercare di ridurre la circolazione del virus A/H1N1 per diminuire le opportunità di ricombinazione con altri sottotipi. Ma attualmente non esistono strumenti o modelli teorici per prevedere una eventuale evoluzione pericolosa del virus. Sul piano teorico, proprio la vaccinazione di massa potrebbe indurre il virus a mutare in una forma più aggressiva. Come curarsi?Per curare l’influenza A occorrono: riposo, una buona idratazione, una alimentazione adeguata, una igiene corretta. Non si deve tossire davanti agli altri senza riparare naso e bocca, bisogna evitare di toccarsi il naso, la bocca, gli occhi, facili vie di accesso dei virus, occorre lavarsi le mani spesso ed accuratamente con acqua e sapone. Non è dimostrato che l’uso di mascherine serva a limitare la propagazione dell’epidemia. Se decidete comunque per la vaccinazione, vi verrà richiesto di firmare il “consenso informato”, una informativa sui rischi. Leggetelo bene, prima di decidere, chiedete informazioni scritte sui benefici e i rischi. Chiedete e chiediamo insieme, per tutti i vaccinati, che sia attivato un programma di sorveglianza attivo, capace davvero di registrare e trattare i gravi problemi di salute che possono presentarsi dopo la vaccinazione. Chiedete e chiediamo che si prevedano risorse economiche per l’indennizzo ai danneggiati. Chiediamo di non speculare sulla salute e sulla paura.
Dott. Eugenio Serravalle, Specialista in Pediatria Preventiva, Puericultura-Patologia Neonatale
mercoledì 9 settembre 2009
Da "La Repubblica" di Stefania Parmeggiani
ROMA - Si gonfiano e danzano, pieni di acqua e sospinti dalle correnti. Sembrano meduse e le tartarughe li ingoiano. Muoiono soffocate. Vengono usati per venti minuti, ma poi l'ambiente per distruggerli impiega 400 anni. Nessun equilibrio tra tempo d'uso e tempo di vita. Gli italiani non riescono a farne a meno, ne producono tra i 10 e i 15 miliardi l'anno, immettendo nell'atmosfera qualcosa come 400 mila tonnellate di anidride carbonica. Sono il simbolo del superfluo, di una società che acquista, consuma e distrugge. Sono i sacchetti di plastica, le shopper usa-e-getta condannate a morire da una direttiva europea, poi ripresa dalla Finanziaria 2007, il primo gennaio 2010. Nel nostro Paese, grazie al "decreto milleproroghe", la sentenza è stata rinviata di un anno. Dodici mesi in più mettere al bando "i sacchi non biodegradabili per l'asporto delle merci", le vecchie borse di polietilene. Molti credono che la rivoluzione verde tarderà ad arrivare. I produttori e i commercianti accampano scuse, i consumatori neanche quelle: sono così pratiche e comode che farne a meno resta un buon proposito, ma almeno per un giorno - un giorno soltanto - si può fare una cortesia all'ambiente. Non sia mai che qualcuno si accorga di quanto siano superflue le sporte di plastica e decida di rinunciarvi anche per il resto della settimana e dell'anno. Quel giorno è il 12 settembre, prima giornata internazionale senza i sacchetti di plastica.
L'ha promossa il Marine Conservation Society (MCS), società inglese no-profit dedicata alla conservazione dell'ecosistema marino. E ha raccolto ovunque l'adesione convinta degli ambientalisti. In Italia l'associazione dei Comuni virtuosi rilancia con la campagna "Porta la Sporta", ispirata al movimento inglese "Plasticbag Free Cities": invitano le amministrazioni a mettere al bando i sacchetti di plastica, coinvolgono le scuole e i bambini in progetti di riciclo e girano le piazze per insegnare a fare divertenti sportine di tela, da tenere con sé e tirare fuori alla cassa del supermercato. I blogger passano parola e sponsorizzano più che i sacchetti biodegradabili - sul cui smaltimento in tempi rapidi è battaglia di brevetti e studi - le vecchie sacche di tela o di juta, da ripiegare e portarsi appresso. Torino ha deciso di non aspettare il Governo e giocando in anticipo cerca di coinvolgere quanti più commercianti possibili per metterle al bando. A Firenze la Unicoop le ha eliminate dai suoi 98 punti vendita. La Coop Adriatica invece già dallo scorso 7 settembre ha eleminato le buste di plastica da tutti i suoi 151 negozi. Al loro posto, alternative a basso impatto ambientale. All'estero hanno già adottato iniziative analoghe: negli Stati Uniti la prima città a vietarne l'uso nei supermercati e nelle farmacie è stata San Francisco; in Gran Bretagna ha cominciato il piccolo comune di Modbury, imitato tra gli altri da Londra. Altri hanno introdotto una tassazione aggiuntiva per chi decide di utilizzarli, qualche centesimo in più da pagare alla cassa del supermercato. Anche la Cina ha detto addio alle shopper: ne produceva tre miliardi al giorno. L'Italia è in ritardo, ma recuperare è possibile: il 12 settembre è il giorno giusto per dare il proprio contributo.
martedì 8 settembre 2009
Preghiera di un bimbo di strada
sono un bambino di strada, ti ricordi di me?
Non ho un volto, né un nome, non valgo nulla!
Ti aspetto Signore Buon Pastore,
per buttarmi tra le tue braccia
e raccontarti le mie pene e i miei dolori.
Signore, dicesti: “Chiedi e ti sarà dato,
bussa e ti sarà aperto”.
Ma nessuno apre, nessuno mi offre.
Signore, tu dicesti: “Lasciate che i bambini vengano a me,
non glielo impedite”.
Violenza, schiavitù, traffico di organi… chi lo impedisce?
Hai gridato: Talita Kum: fanciulla… fanciullo, alzati!
Ma come posso alzarmi se non mi dai la mano?
Ma nonostante tutto Signore, ti chiedo:
Perdona chi permette che viva al freddo, affamato, infermo, nudo.
Perdona chi ha le risorse ma non le mette in comune.
Padre, perdona tutti quelli che non rispondono al grido dei bambini della strada.
Amen.
giovedì 3 settembre 2009
Dedicata dalla cantante a Bush, riciclabile in diverse altre occasioni...
Look inside
Look inside your tiny mind
Now look a bit harder
Cause we’re so uninspired,
so sick and tired of all the hatred you harbor
lunedì 31 agosto 2009
venerdì 14 agosto 2009
domenica 9 agosto 2009
mercoledì 5 agosto 2009
domenica 2 agosto 2009
Le porcherie di Nestlè.
Negli anni sono morti milioni di bambini grazie a questa "campagna pubblicitaria" della Nestlè..il motivo?
Per prima cosa l'acqua con cui viene diluito il latte è sempre sporca e non potabile ( avete mai visto un rubinetto in una capanna???!!!)inoltre, molte delle mamme per poter "risparmiare", non rispettano le dosi di diluizione finendo con l'offire ai neonati una quantità errata di latte in polvere.
I biberon non vengono mai sterilizzati e questo aumenta il rischio di malattie dovute alla poca pulizia.
Una mamma del terzo mondo decide di non allattare al seno perchè le pubblicità della Nestlè sono ingannevoli: il latte in polvere promette un apporto maggiore di proteine e vitamine rispetto a quello materno...MA NON è VERO!
la nestlè regala il latte in polvere per alcuni mesi e distribuisce omaggi di diverso tipo alle mamme...è inutile spiegare che in paesi dove non c'è nulla, questa strategia ha molta efficacia...soprattutto se ti promettono che il tuo bimbo crescerà forte e sano.
Regole internazionali vieterebbero il contatto tra bimbi inferiori ai tre anni e multinazionali del latte in polvere.
Ma la nestlè se ne frega.
Vi chiedo di copiare questo testo e di incollarlo in questo form del sito della nestlè:
http://www.nestle.com/Common/Header/ContactUs.htm
I am writing to you to protest that Nestlé markets its formula with claims that it 'protects' babies, when babies fed on it are at greater risk of short and long-term illness than breastfed babies. Such labels were displayed at your shareholder meeting this year, proving that these strategies come right from the top of Nestlé.This strategy is being used in Malawi, one of the poorest countries in the world. While it is welcome that Nestlé added the national language of Malawi to labels following a Baby Milk Action campaign, it is the height of irresponsibility that you are underming 'breast is best' messages with your 'protect' logo. I also ask you to act to investigate and stop special displays of formula in retail outlets in Malawi and elsewhere. I am also concerned that Nestlé is targeting mothers of young children (up to 3 years of age) in the Philippines in breach of the International Code of Marketing of Breastmilk Substitutes with the Nestlé Club and gifts such as the My Baby's Record Book. The Philippines Regulations prohibit company activities targeting women of reproductive age.
Per maggiori info sul boicottaggio:http://www.babymilkaction.org/index.html
mercoledì 29 luglio 2009
Besame mucho di C.Gonzalez

Per tutte le volte che una mamma si sente inadeguata, per tutti i suoi dubbi; per tutte le volte che le persone vicine a lei dispensano consigli senza senso e motivazione.
Non è un libro frikk-new age (come sicuramente qualcuno avrà pensato :) )...anzi, mi è piaciuto molto per la sua "semplicità scientifica".
Buona lettura!
lunedì 20 luglio 2009
giovedì 9 luglio 2009
G8&Co.
Ecco di seguito gli interventi che più mi sono piaciuti. Vi lascio anche il link per poter andare a leggere quelli che non ho pubblicato.
http://www.lastampa.it/focus/g8/africa/default.asp
"Grazie per gli aiuti ma impareremo a cavarcela da soli"
Siamo a trecento chilometri dalla capitale Kampala - vicini al confine con il Kenya, in un’area grande come Piemonte e Liguria insieme, con un milione di abitanti e 1.200.000 mucche - ma per arrivare ci vuole una giornata di sobbalzi lungo strade sterrate. Qui è nato Peter Lochoro, il responsabile di tutti i progetti dell’ong italiana Medici con l’Africa Cuamm in Uganda, unico di otto fratelli a essere andato a scuola: «E’ il privilegio che mio padre ha concesso a un solo figlio di ognuna delle sue tre mogli». Sette chilometri a piedi per andare e sette per tornare ogni giorno, poi le superiori lontano da casa, l’università, la borsa di studio in Gran Bretagna, un’eccellenza confermata a ogni passo da quando «bambino, ho visto i medici bianchi del Cuamm curare le persone del mio kraal», il villaggio nomade spostato al ritmo del pascolo degli armenti.
La storia di Peter realizza un ideale dell’aiuto allo sviluppo: la sostenibilità. I responsabili sanitari come lui sono ancora insufficienti a formare una classe sociale capace di guidare il Paese oltre l’emergenza cronica che dura da mezzo secolo; eppure grazie a questi medici africani l’idea dell’autosufficienza non appare più un’utopia occidentale, ma un progetto realizzabile, anche se non vicino: «L’errore dei Paesi sviluppati è spesso quello di progettare aiuti senza prima venire a vedere cosa e come fare. Fateci fare da soli: lasciateci le responsabilità, seguiteci magari, ma fateci affrontare le cose da soli, cosicché sul lungo periodo riusciremo a essere autonomi.
Non cercate di sostituirvi alle capacità e alla volontà degli africani pur se spinti dall’altruismo: ricordatevi che prima o poi voi andrete via, mentre noi rimarremo». Per questo molti responsabili delle organizzazioni umanitarie chiedono un impegno che vada oltre l’emergenza, l’immediato. «E’ giusto che l’opinione pubblica e i finanziatori occidentali si aspettino risultati, ma come si può risolvere una situazione grave (malattie, analfabetismo, disparità sessuale) in un anno o anche tre? Perciò chiediamo un impegno lungo - dieci, quindici anni - per mostrare che le cose possono essere cambiate».
«Fiducia controllata», la definisce un medico che lavora qui da quarant’anni: «Ci vorranno ancora un paio di generazioni prima che ci possa essere un completo passaggio di consegne» e la nascita di una mentalità nuova, in un Paese che oltretutto raddoppia i suoi abitanti ogni 15 anni (30 milioni adesso, oltre 60 entro il 2025). Serve un cambio di volontà anche da parte del governo che «destina il 22% del Pil alla Difesa e alla Sanità il 9%, otto dollari l’anno procapite; ne servirebbero come minimo 24 a testa», calcola Peter Lochoro. In queste situazioni difficili l’impegno individuale risalta e fa davvero la differenza, ma non ha ancora la forza di portare con sé un cambiamento generale. «L’Africa sembra un asilo senza futuro», scappa detto a un missionario mentre guarda la distesa di bambini e giovani madri in paziente attesa nel cortile dell’ospedale.
STEFANIO CITATI
La promessa fatta ai deboli è sacra
MINA
Il dramma del continente bianco
ROBERTO SAVIANO
Il continente della speranza
L’attenzione mediatica durante il viaggio di Benedetto XVI in Africa lo scorso marzo si è purtroppo focalizzata su polemiche che l’hanno preceduto (la revoca della scomunica ai vescovi lefevriani) e accompagnato (quali prevenzioni e terapie per la piaga dell’Aids). Poco o nulla è stato detto invece su quanto quella visita significava e cosa preparava per «il continente della speranza». Ora, il prossimo ottobre avrà luogo la II Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi dedicata al continente africano, che avrà come tema «La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace». Una riflessione sui cristiani come «sale della terra e luce del mondo», resa contestuale al continente che in questi ultimi cinquant’anni ha conosciuto la tanto attesa uscita dall’epoca coloniale e la faticosa ricerca di vie di pace, convivenza, sviluppo, democrazia.È stato quindi attorno alle tematiche raccolte nel documento ufficiale preparatorio che hanno ruotato gli interventi di Benedetto XVI: un’analisi lucida ed esigente di aspettative, ostacoli, contraddizioni che forse non a caso è stata trascurata dai media occidentali. È un’Africa «assetata di speranza e di giustizia», bisognosa di riconciliazione e di pace, quella cui si è rivolto il Papa, facendosi espressione di un sentire ecclesiale che supera i confini del continente. L’Africa per il cristianesimo ha rappresentato nel corso della storia un insieme di realtà complesse e a volte contraddittorie, le cui tracce sono ben presenti ancora oggi con le loro potenzialità e la loro problematicità: «culla del cristianesimo», ha accolto come esule Gesù durante i suoi primi anni di vita; ha visto la predicazione del Vangelo dilatarsi fin dai primi decenni da Alessandria d’Egitto all’Etiopia e all’attuale Algeria, poi ha conosciuto l’impatto travolgente dell’islam nel pieno della sua forza; a Sud del Sahara ha visto splendori e contraddizioni di un’evangelizzazione troppo spesso mescolata alla colonizzazione e allo sfruttamento; ha assistito a miracoli di amore e dedizione e ad abissi di violenze e di ingiustizie. Una Chiesa, quella africana, che ancora oggi, dopo aver «realizzato un’opzione preferenziale per i poveri», sperimenta ambiguità e tesori, assieme a inediti risvolti di dialogo e di conflitti tra appartenenti a fedi diverse.La Chiesa è anche consapevole che i problemi non hanno origine solo all’interno del continente, ma sono sovente indotti. Certo, guerre tribali, lotte intestine, ingiustizie e corruzione mortificano le potenzialità dell’Africa, ma il documento preparatorio del sinodo non tace sulle pesanti responsabilità esterne: «Le multinazionali continuano a invadere gradualmente il continente per appropriarsi delle risorse naturali. Schiacciano le compagnie locali, acquistano migliaia di ettari espropriando le popolazioni delle loro terre con la complicità dei dirigenti africani». Né è taciuta la dipendenza indotta dagli Ogm che finisce col sopprimere le semine tradizionali, così come è ferma la condanna della vendita delle armi e dei «lauti guadagni» che produce mentre moltiplica il tragico potenziale della violenza e della guerra.Ma la visione che la Chiesa ha dell’Africa - e di cui il viaggio di Benedetto XVI si è fatto araldo - non è rinchiusa in una sterile condanna: è una visione che nasce da lontano e apre a orizzonti di solidarietà e dedizione, è elaborazione di una vera e propria «teologia della fraternità» che, stimolata dalla situazione odierna, affonda le radici nella più schietta tradizione cristiana e africana. Così scriveva l’apologeta africano Lattanzio all’inizio del IV secolo: «Il primo dovere della giustizia è riconoscere l’uomo come un fratello. Infatti, se lo stesso Dio ci ha fatti e ci ha generati tutti nella stessa condizione, in vista della giustizia e della vita eterna, noi siamo sicuramente uniti da legami di fraternità: chi non li riconosce è ingiusto». Parole che sgorgano dal continente africano e che sono ancora oggi drammaticamente disattese anche sulla nostra sponda del comune mare Mediterraneo. Parole che sono profezia di speranza anche per noi.
ENZO BIANCHI
Una politica globale di accesso al cibo
L' attuale scenario internazionale, profondamente segnato dalla crisi finanziaria, esige un impegno politico ed economico da parte dei Paesi Membri del G8, affinché rispondano adeguatamente alle istanze delle popolazioni africane duramente colpite da guerre, inedia e pandemie. Da rilevare che lo spettro della cancellazione degli aiuti internazionali per l'Africa è una questione dalla forte valenza morale, nella consapevolezza che l'umanità ha un destino comune, come indicato a chiare lettere dalla Dottrina sociale della Chiesa. Onorare pertanto gli impegni già assunti in sede internazionale dai Grandi della Terra per ridurre la povertà globale e raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, specialmente nei confronti dei Paesi Africani, significa salvaguardare il diritto alla vita e al benessere d'intere popolazioni. Si tratta di creare, attraverso l'ingegno e la buona volontà, quei meccanismi che consentano di passare dall'emergenza allo sviluppo, consentendo ai Paesi in via di sviluppo (Pvs) di diventare protagonisti della loro crescita, partecipando attivamente al rinnovamento delle riforme politiche, governative, economiche e sociali sul piano globale, in un mondo segnato da una crescente sperequazione tra ricchi e poveri.L'impegno profuso in questi anni dalla Chiesa Cattolica in Africa nell'annuncio e testimonianza del Vangelo, anche attraverso i numerosi missionari, missionarie, sacerdoti fidei donum e laici di nazionalità italiana, è un segno evidente di quella cooperazione tra le Chiese che dovrebbe ispirare le relazioni tra Nord e Sud del mondo, particolarmente tra Europa e Africa. D'altronde, il problema della povertà, che affligge vasti settori dei ceti meno abbienti in molte zone geografiche del continente africano, straordinariamente ricche di materie prime - particolarmente nella Regione dei Grandi Laghi, come anche nel Corno d'Africa dove la conflittualità è più evidente - esige una forte assunzione di responsabilità, sia da parte dei Paesi in via di sviluppo, sia da parte dei Paesi industrializzati. Lungi dal voler cadere nella trappola di valutazioni ideologiche, l'innegabile piaga della corruzione che attanaglia l'Africa, la lontananza dei mercati globali dai bisogni reali delle popolazioni, la debolezza contrattuale delle imprese autoctone, il potere indiscriminato delle compagnie straniere e degli intermediari, oltre all'assenza più generale di regole certe nel commercio, sono fenomeni che sortiscono un effetto devastante sulle popolazioni civili. Non siano allora i poveri a pagare per la crisi che sta colpendo il mondo, perché significherebbe far sprofondare l'Africa nell'abisso della miseria. Come affermato in questi giorni dai presidenti delle Conferenze Episcopali dei Paesi del G8, in un messaggio nel quale si raccomanda in modo particolare di mantenere gli impegni presi a favore dei Paesi in via di sviluppo, di proseguire nelle iniziative di peacekeeping e di non permettere ulteriori cambiamenti climatici, è evidente che i poveri vanno aiutati da tutti i punti di vista, scongiurando l'esodo forzato dalle periferie del mondo in cui essi spesso sopravvivono in condizioni subumane. A tale proposito sarebbe inoltre auspicabile che nel corso del vertice de L'Aquila, i G8 facessero il possibile per utilizzare almeno una parte dei 365 miliardi di euro destinati ogni anno a sovvenzionare l'agricoltura nei Paesi dell'Ocse, come incentivo ai contadini africani, intraprendendo finalmente una politica globale di accesso al cibo. "Ex Africa Semper Aliquid Novi" , scriveva Plinio il Vecchio, e noi siamo certi che l'Africa è ben disposta a voltare pagina con l'aiuto di tutti. Un desiderio ben visibile nei pronunciamenti dell'Episcopato africano che si riunirà il prossimo ottobre a Roma in un'assise sinodale voluta dal Santo Padre.
CARD. ANGELO BAGNASCO