mercoledì 29 luglio 2009

Besame mucho di C.Gonzalez




Un libro bellissimo, che consiglio a tutte le mamme, le donne, i papà...a tutti.
Perchè c'è bisogno di riscoprire l'istinto materno, paterno e genitoriale.
Per tutte le volte che una mamma si sente inadeguata, per tutti i suoi dubbi; per tutte le volte che le persone vicine a lei dispensano consigli senza senso e motivazione.
Non è un libro frikk-new age (come sicuramente qualcuno avrà pensato :) )...anzi, mi è piaciuto molto per la sua "semplicità scientifica".

Buona lettura!

lunedì 20 luglio 2009

giovedì 9 luglio 2009

G8&Co.

In occasione del G8, il quotidiano "La stampa" ha pubblicato uno speciale sull'Africa e sulle promesse (mai mantenute) prese negli anni scorsi verso il continente nero.
Ecco di seguito gli interventi che più mi sono piaciuti. Vi lascio anche il link per poter andare a leggere quelli che non ho pubblicato.
http://www.lastampa.it/focus/g8/africa/default.asp

"Grazie per gli aiuti ma impareremo a cavarcela da soli"

KOTIDO (UGANDA)Piove infine sulla savana della Karamoja. La terra rossa diviene fango, le montagne sullo sfondo scompaiono, i bambini pastori restano a guardare le loro mucche piccole come pecore immobili tra gli arbusti. E’ tutto quel che hanno, tutta la loro vita, la loro ricchezza. Niente scuola, niente giochi, niente famiglia: solo mucche, capre, una pelle rinsecchita per giaciglio e la disciplina dei più grandi, degli anziani. Le aule sono un miraggio oltre l’orizzonte. Qui, nel Nord-Est ugandese, l’alfabetizzazione è all’11%, (66% la media nazionale), il kalashnikov è spesso ancora lo strumento della legge tribale e la mandria è la misura della ricchezza e la dote della sposa: per la mucca si uccide, per la mucca si vive, come avevano scoperto i primi missionari quasi un secolo fa, e da allora razzie e sparatorie per rubarsi il bestiame non sono mai davvero finite.
Siamo a trecento chilometri dalla capitale Kampala - vicini al confine con il Kenya, in un’area grande come Piemonte e Liguria insieme, con un milione di abitanti e 1.200.000 mucche - ma per arrivare ci vuole una giornata di sobbalzi lungo strade sterrate. Qui è nato Peter Lochoro, il responsabile di tutti i progetti dell’ong italiana Medici con l’Africa Cuamm in Uganda, unico di otto fratelli a essere andato a scuola: «E’ il privilegio che mio padre ha concesso a un solo figlio di ognuna delle sue tre mogli». Sette chilometri a piedi per andare e sette per tornare ogni giorno, poi le superiori lontano da casa, l’università, la borsa di studio in Gran Bretagna, un’eccellenza confermata a ogni passo da quando «bambino, ho visto i medici bianchi del Cuamm curare le persone del mio kraal», il villaggio nomade spostato al ritmo del pascolo degli armenti.
La storia di Peter realizza un ideale dell’aiuto allo sviluppo: la sostenibilità. I responsabili sanitari come lui sono ancora insufficienti a formare una classe sociale capace di guidare il Paese oltre l’emergenza cronica che dura da mezzo secolo; eppure grazie a questi medici africani l’idea dell’autosufficienza non appare più un’utopia occidentale, ma un progetto realizzabile, anche se non vicino: «L’errore dei Paesi sviluppati è spesso quello di progettare aiuti senza prima venire a vedere cosa e come fare. Fateci fare da soli: lasciateci le responsabilità, seguiteci magari, ma fateci affrontare le cose da soli, cosicché sul lungo periodo riusciremo a essere autonomi.
Non cercate di sostituirvi alle capacità e alla volontà degli africani pur se spinti dall’altruismo: ricordatevi che prima o poi voi andrete via, mentre noi rimarremo». Per questo molti responsabili delle organizzazioni umanitarie chiedono un impegno che vada oltre l’emergenza, l’immediato. «E’ giusto che l’opinione pubblica e i finanziatori occidentali si aspettino risultati, ma come si può risolvere una situazione grave (malattie, analfabetismo, disparità sessuale) in un anno o anche tre? Perciò chiediamo un impegno lungo - dieci, quindici anni - per mostrare che le cose possono essere cambiate».
«Fiducia controllata», la definisce un medico che lavora qui da quarant’anni: «Ci vorranno ancora un paio di generazioni prima che ci possa essere un completo passaggio di consegne» e la nascita di una mentalità nuova, in un Paese che oltretutto raddoppia i suoi abitanti ogni 15 anni (30 milioni adesso, oltre 60 entro il 2025). Serve un cambio di volontà anche da parte del governo che «destina il 22% del Pil alla Difesa e alla Sanità il 9%, otto dollari l’anno procapite; ne servirebbero come minimo 24 a testa», calcola Peter Lochoro. In queste situazioni difficili l’impegno individuale risalta e fa davvero la differenza, ma non ha ancora la forza di portare con sé un cambiamento generale. «L’Africa sembra un asilo senza futuro», scappa detto a un missionario mentre guarda la distesa di bambini e giovani madri in paziente attesa nel cortile dell’ospedale.
STEFANIO CITATI

La promessa fatta ai deboli è sacra

Esiste una parola per definire chi non mantiene una promessa sottoscritta? Un termine per bollare chi afferma, anzi promette, e poi non fa seguire all'impegno assunto la dovuta attuazione pratica, potrebbe essere "fedifrago". È un vocabolo poco usato che, però, esprime l'idea moralmente disonorevole del rompere la fiducia da parte di chi non tiene fede ad una promessa.Anche solo a livello puramente fonico, risulta difficile spostare questo aggettivo un po' forbito e un po' ridicolo da una persona ad una Istituzione, magari ad un Governo. Se urta l'orecchio affermare che un Governo Nazionale è fedifrago, la causa risiede forse nel fatto che si tratta di circostanza neppure ipotizzabile, per lo meno secondo la logica del valore della parola data. Se la parola d'onore vale come impegno inderogabile per una persona fisica, deve valere, a maggior ragione, per una Istituzione. O no? Eppure al tavolo aquilano dell'imminente G8, dove, tra le mille questioni si dovrà discutere anche degli aiuti all'Africa, si siederanno almeno due Governi chiaramente fedifraghi. Quello francese e, purtroppo, quello che presiederà i lavori, e cioè quello italiano.Al G8 di Gleneagles del 2005 i grandi della terra si erano impegnati a raddoppiare entro il 2010 gli aiuti all'Africa, per combattere la povertà e la fame e per sviluppare i sistemi sanitari, l'accesso all'acqua, l'agricoltura e l'istruzione per i bambini. Mancano all'appello più di 7 miliardi di dollari. E l'80% dei fondi mancanti sono imputabili ai tagli che Francia e Italia hanno apportato ai loro contributi per lo sviluppo dell'Africa.Si possono addurre tutte le giustificazioni possibili, dall'imprevedibile gravità della crisi economica agli ingenti impegni di spesa per la ricostruzione dell'Abruzzo. Ma "una promessa fatta ai poveri è sacra", come dice l'arcivescovo sudafricano e premio Nobel Desmond Tutu. Il quale aggiunge: "Quando vengono fatti tutti gli sforzi per rispettare quei patti, si tratta di un atto di grazia e di grande leadership. Per questo quei paesi del G8 che guidano gli sforzi per i poveri meritano il plauso. Mi rattrista e mi fa arrabbiare il fatto che grandi nazioni come Italia e Francia vadano nella direzione opposta".Ma i semplici travasi di denaro da un Governo all'altro, una volta arrivati, rischiano di percorrere rivoli non sempre chiari e trasparenti. E allora prima degli impegni economici degli Stati, e forse più dei progetti internazionali, conta la vicinanza solidale di chi opera non per l'Africa, ma per gli Africani. E in questo campo potremmo a buon diritto conservare almeno l'italico orgoglio di non essere secondi a nessuno. E non parlo solo dei missionari. Penso a uomini e donne meravigliosi che trasferiscono per anni la loro dedizione in terre dimenticate e in mezzo a gente bisognosa di tutto e, per questo, riconoscente per ogni attimo di attenzione gratuitamente dedicato.Saranno i potenti del G8 a dettagliare le forme per garantire impegni economicamente certi e per esigere dai Governi locali una verifica dei modi in cui vengono utilizzati. A questo riguardo, sarà auspicabile che anche dalle classi dirigenti africane si esiga maggiore capacità amministrativa, sgomberando il campo da tutte le inefficienze e le corruzioni tipiche di regimi non sempre pienamente democratici. Ma questi sono impegni che competono ai politici. Agli Africani, però, non deve mancare la presenza di persone che prendono a cuore la loro difficile realtà e la condividono, portandovi dall'interno un contenuto di speranza attiva che mette in moto un cambiamento che parte dal piccolo. E per noi, che stiamo seduti sulla parte grassa del mappamondo, vale sempre, senza falsi alibi, il principio che per cambiare l'Africa, che ci sembra così lontana, deve cambiare qualche espressione della nostra vita. "Sii tu stesso il cambiamento che vuoi che accada nel mondo" (Gandhi).
MINA

Il dramma del continente bianco

L'Africa oggi non è nera. L'Africa non è marrone, non è verde, non è gialla. L'Africa oggi non è l'ebano, non è il colore della pelle, non è il colore della savana o del deserto. L'Africa è bianca. Bianca non del colore della pelle dei vecchi discendenti dei boeri. Né dei Medici Senza Frontiere che l'attraversano. E neanche degli investitori. E' il bianco della cocaina il colore dell'Africa oggi. Tutta l'Africa occidentale è ormai gonfia di cocaina e capitali del narcotraffico. Tutta la cocaina che entra in Spagna, Italia, Grecia, Turchia, Scandinavia, ma anche Romania, Russia, Polonia. Tutta quella polvere bianca passa per l'Africa. L'eroina è afgana. La coca sudamericana, certo. Ma ormai non è più il marchio iniziale l'aspetto determinante: l'origine della coltivazione, la pianta, la raffinazione. Ormai la coca è africana. L'Africa è il continente bianco. In Guinea Bissau, il presidente Joao Viera, a sua volta arrivato al potere tramite un colpo di stato è stato ammazzato perché intralciava gli interessi dei narcos. Il presidente Vieria aveva percentuali sulle navi che arrivavano dal Sudamerica, aveva accordi con gli armatori e questo non andava più bene. Sono le vie aeree che dal 2006 in poi divengono uniche e necessarie. Partono dal Brasile, da Cuba, dal Messico, dal cuore della Colombia, dal sud del Venezuela. Nel 2004, gli Stati Uniti lanciarono la West Africa Joint Operation. Sequestrarono in pochi giorni di più di 1.300 kg di cocaina in Benin, Ghana, Togo e Capo Verde. Ora gli aeroporti sono dei narcos. Senza il loro danaro niente benzina per le compagnie aeree, niente danaro per le ditte di pulizia, niente controllori sulle torri. E dal cuore dell'Africa equatoriale tutto riparte o su gomma o nuovamente in aereo. E' in Marocco che si stanno scontrando due generazioni. I vecchi trafficanti e i nuovi. Mahmud è un poliziotto marocchino da anni in Italia per salvarsi la vita, dopo un lungo periodo di infiltrazione nei cartelli dell'hascisc. Mi racconta che ha assistito a più incontri tra vecchi e giovani trafficanti. Tra i vecchi che trafficano hascisc e ragazzi che trafficano coca. I Mauritani portano i carichi dal Senegal e dai paesi equatoriani attraverso il deserto e li mollano ai marocchini che li stoccano nelle case vicino al porto. E dal porto poi arrivano alle varie rotte. Andalusia, Campania, Peloponneso, Calabria, Valona. In Marocco, mi racconta Mahmud, tutti i discorsi vanno nella stessa direzione. Me ne ricorda uno, solito, identico, sempre le stesse motivazioni e gli stessi litigi. "Noi non possiamo far passare la coca. Se passa la coca non passa più niente. Mandano l'esercito, ci mettono le bombe sulle spiagge" e quasi sempre in questo discorso i giovani dicono "se non lo facciamo noi lo fanno i libici, se non lo fanno i libici, lo fanno gli algerini." I trafficanti di hascisc sono da sempre tollerati. In fondo la loro droga non è aggressiva, li fa guadagnare bene ma non arricchirsi. L'economia marocchina si fonda soprattutto sull'hascisc. Senza hascisc, la borghesia commerciale non esisterebbe. La storia parte da lontano ed è sempre la stessa. I meccanismi dell'economia schiacciano le regole morali. E' sempre così. I boss di Cosa Nostra della vecchia generazione non volevano vendere eroina e furono massacrati dalle nuove generazioni di mafiosi che decisero di gettarsi in quell'affare. Le famiglie Casalesi non volevano entrare nel mercato del traffico dei rifiuti tossici che avrebbero distrutto gran parte del loro territorio. Ma si accorsero che rifiutando un business importante, diventi immediatamente fragile, perdente. E così, alla fine abbracciarono il mercato.L'Africa è bianca. Bianca di coca. E anche i trafficanti di eroina iraniani e afgani vogliono l'Africa come snodo centrale dei loro commerci. E così all'andata si trasporta coca e al ritorno si trasporta eroina in Sudamerica e da lì in Usa, rotta che per ora non ha raggiunto ancora la mole del traffico di coca in Africa. L'Africa oggi è un continente in grado di risolvere le contraddizioni per i trafficanti di coca, di eroina e anche di rifiuti tossici. E questo fiume di droga sta pure facendo incredibilmente aumentare i tossicodipendenti africani. Drogati, tossici, cocainomani in un continente sempre associato alla miseria e alla fame, è un paradosso che dice molto. Diamanti, Avorio, Ebano, Coltan e ogni altra riscorsa tratta dalla terra d'Africa hanno generato soprattutto sangue e non ricchezza. Ma ora le sostanze importate, la coca e i rifiuti tossici, stanno trasformando l'Africa. Ora il suo enorme spazio diviene la sua ricchezza. Non più -o meglio- non soltanto la risorsa saccheggiata, il petrolio succhiato, i diamanti strappati, l'oro estirpato. Ogni foro diventa spazio per intombare rifiuti tossici e l'Africa intera una tomba a cielo aperto, visibile solo quando accadono tragedie. Il 19 agosto del 2006 ad Abdijan in Costa d'Avorio la nave Probo Koala attraccò nel porto autorizzata a scaricare 581 tonnellate di rifiuti tossici in un'unica discarica. Invece i barili di sostanze pericolose si moltiplicarono, finendo per debordare nei territori vicini. Restarono intossicate 85mila persone. Come è successo in Italia, i rifiuti tossici invadono le discariche. I veleni finiscono dove dovrebbero andare i rifiuti ordinari e i rifiuti ordinari finiscono nelle strade. Come è successo in Italia, però su scala infinitamente superiore, perché l'Africa non è una parte di una piccola nazione, ma un continente. Per cominciare ad emergere, il continente nero ha puntato su una merce che non nasce nelle sue miniere, che non cresce nei suoi campi. Ecco perché l'Africa è divenuta bianca. Bianca di una sostanza che non le appartiene, di un potere che la divora, ancora una volta incapace di creare sviluppo, ma solo esponenziale ricchezza per la sua sempiterna classe dirigente corrotta. L'Africa è divenuta uno scalino, uno scalino bianco su cui far fare il salto finale alle sostanze illegali. La dannazione africana non sono più quindi le sue risorse ma anche - e questo suona ancora più terribile - la sua assenza di giustizia, la possibilità di comprare con pochi dollari anime corpi e ferocia dei suoi abitanti, e la sua terra, il suo corpo, i suoi spazi. Se esiste un cuore di tenebra, oggi, come quello di cui narrava Joseph Conrad, questo cuore potrebbe essere sepolto nelle profondità di un suolo avvelenato. Ma il suo colore, la sua sostanza, il suo sangue, sarebbe bianco.
ROBERTO SAVIANO

Il continente della speranza

ENZO BIANCHI
L’attenzione mediatica durante il viaggio di Benedetto XVI in Africa lo scorso marzo si è purtroppo focalizzata su polemiche che l’hanno preceduto (la revoca della scomunica ai vescovi lefevriani) e accompagnato (quali prevenzioni e terapie per la piaga dell’Aids). Poco o nulla è stato detto invece su quanto quella visita significava e cosa preparava per «il continente della speranza». Ora, il prossimo ottobre avrà luogo la II Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi dedicata al continente africano, che avrà come tema «La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace». Una riflessione sui cristiani come «sale della terra e luce del mondo», resa contestuale al continente che in questi ultimi cinquant’anni ha conosciuto la tanto attesa uscita dall’epoca coloniale e la faticosa ricerca di vie di pace, convivenza, sviluppo, democrazia.È stato quindi attorno alle tematiche raccolte nel documento ufficiale preparatorio che hanno ruotato gli interventi di Benedetto XVI: un’analisi lucida ed esigente di aspettative, ostacoli, contraddizioni che forse non a caso è stata trascurata dai media occidentali. È un’Africa «assetata di speranza e di giustizia», bisognosa di riconciliazione e di pace, quella cui si è rivolto il Papa, facendosi espressione di un sentire ecclesiale che supera i confini del continente. L’Africa per il cristianesimo ha rappresentato nel corso della storia un insieme di realtà complesse e a volte contraddittorie, le cui tracce sono ben presenti ancora oggi con le loro potenzialità e la loro problematicità: «culla del cristianesimo», ha accolto come esule Gesù durante i suoi primi anni di vita; ha visto la predicazione del Vangelo dilatarsi fin dai primi decenni da Alessandria d’Egitto all’Etiopia e all’attuale Algeria, poi ha conosciuto l’impatto travolgente dell’islam nel pieno della sua forza; a Sud del Sahara ha visto splendori e contraddizioni di un’evangelizzazione troppo spesso mescolata alla colonizzazione e allo sfruttamento; ha assistito a miracoli di amore e dedizione e ad abissi di violenze e di ingiustizie. Una Chiesa, quella africana, che ancora oggi, dopo aver «realizzato un’opzione preferenziale per i poveri», sperimenta ambiguità e tesori, assieme a inediti risvolti di dialogo e di conflitti tra appartenenti a fedi diverse.La Chiesa è anche consapevole che i problemi non hanno origine solo all’interno del continente, ma sono sovente indotti. Certo, guerre tribali, lotte intestine, ingiustizie e corruzione mortificano le potenzialità dell’Africa, ma il documento preparatorio del sinodo non tace sulle pesanti responsabilità esterne: «Le multinazionali continuano a invadere gradualmente il continente per appropriarsi delle risorse naturali. Schiacciano le compagnie locali, acquistano migliaia di ettari espropriando le popolazioni delle loro terre con la complicità dei dirigenti africani». Né è taciuta la dipendenza indotta dagli Ogm che finisce col sopprimere le semine tradizionali, così come è ferma la condanna della vendita delle armi e dei «lauti guadagni» che produce mentre moltiplica il tragico potenziale della violenza e della guerra.Ma la visione che la Chiesa ha dell’Africa - e di cui il viaggio di Benedetto XVI si è fatto araldo - non è rinchiusa in una sterile condanna: è una visione che nasce da lontano e apre a orizzonti di solidarietà e dedizione, è elaborazione di una vera e propria «teologia della fraternità» che, stimolata dalla situazione odierna, affonda le radici nella più schietta tradizione cristiana e africana. Così scriveva l’apologeta africano Lattanzio all’inizio del IV secolo: «Il primo dovere della giustizia è riconoscere l’uomo come un fratello. Infatti, se lo stesso Dio ci ha fatti e ci ha generati tutti nella stessa condizione, in vista della giustizia e della vita eterna, noi siamo sicuramente uniti da legami di fraternità: chi non li riconosce è ingiusto». Parole che sgorgano dal continente africano e che sono ancora oggi drammaticamente disattese anche sulla nostra sponda del comune mare Mediterraneo. Parole che sono profezia di speranza anche per noi.
ENZO BIANCHI

Una politica globale di accesso al cibo

CARD. ANGELO BAGNASCO
L' attuale scenario internazionale, profondamente segnato dalla crisi finanziaria, esige un impegno politico ed economico da parte dei Paesi Membri del G8, affinché rispondano adeguatamente alle istanze delle popolazioni africane duramente colpite da guerre, inedia e pandemie. Da rilevare che lo spettro della cancellazione degli aiuti internazionali per l'Africa è una questione dalla forte valenza morale, nella consapevolezza che l'umanità ha un destino comune, come indicato a chiare lettere dalla Dottrina sociale della Chiesa. Onorare pertanto gli impegni già assunti in sede internazionale dai Grandi della Terra per ridurre la povertà globale e raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, specialmente nei confronti dei Paesi Africani, significa salvaguardare il diritto alla vita e al benessere d'intere popolazioni. Si tratta di creare, attraverso l'ingegno e la buona volontà, quei meccanismi che consentano di passare dall'emergenza allo sviluppo, consentendo ai Paesi in via di sviluppo (Pvs) di diventare protagonisti della loro crescita, partecipando attivamente al rinnovamento delle riforme politiche, governative, economiche e sociali sul piano globale, in un mondo segnato da una crescente sperequazione tra ricchi e poveri.L'impegno profuso in questi anni dalla Chiesa Cattolica in Africa nell'annuncio e testimonianza del Vangelo, anche attraverso i numerosi missionari, missionarie, sacerdoti fidei donum e laici di nazionalità italiana, è un segno evidente di quella cooperazione tra le Chiese che dovrebbe ispirare le relazioni tra Nord e Sud del mondo, particolarmente tra Europa e Africa. D'altronde, il problema della povertà, che affligge vasti settori dei ceti meno abbienti in molte zone geografiche del continente africano, straordinariamente ricche di materie prime - particolarmente nella Regione dei Grandi Laghi, come anche nel Corno d'Africa dove la conflittualità è più evidente - esige una forte assunzione di responsabilità, sia da parte dei Paesi in via di sviluppo, sia da parte dei Paesi industrializzati. Lungi dal voler cadere nella trappola di valutazioni ideologiche, l'innegabile piaga della corruzione che attanaglia l'Africa, la lontananza dei mercati globali dai bisogni reali delle popolazioni, la debolezza contrattuale delle imprese autoctone, il potere indiscriminato delle compagnie straniere e degli intermediari, oltre all'assenza più generale di regole certe nel commercio, sono fenomeni che sortiscono un effetto devastante sulle popolazioni civili. Non siano allora i poveri a pagare per la crisi che sta colpendo il mondo, perché significherebbe far sprofondare l'Africa nell'abisso della miseria. Come affermato in questi giorni dai presidenti delle Conferenze Episcopali dei Paesi del G8, in un messaggio nel quale si raccomanda in modo particolare di mantenere gli impegni presi a favore dei Paesi in via di sviluppo, di proseguire nelle iniziative di peacekeeping e di non permettere ulteriori cambiamenti climatici, è evidente che i poveri vanno aiutati da tutti i punti di vista, scongiurando l'esodo forzato dalle periferie del mondo in cui essi spesso sopravvivono in condizioni subumane. A tale proposito sarebbe inoltre auspicabile che nel corso del vertice de L'Aquila, i G8 facessero il possibile per utilizzare almeno una parte dei 365 miliardi di euro destinati ogni anno a sovvenzionare l'agricoltura nei Paesi dell'Ocse, come incentivo ai contadini africani, intraprendendo finalmente una politica globale di accesso al cibo. "Ex Africa Semper Aliquid Novi" , scriveva Plinio il Vecchio, e noi siamo certi che l'Africa è ben disposta a voltare pagina con l'aiuto di tutti. Un desiderio ben visibile nei pronunciamenti dell'Episcopato africano che si riunirà il prossimo ottobre a Roma in un'assise sinodale voluta dal Santo Padre.
CARD. ANGELO BAGNASCO

Il colore del cuore

Quando penso alla «mia Africa», l’Africa della posta del cuore, penso alla lettera di un laureando della facoltà di medicina di Perugia. All’università aveva conosciuto una studentessa dell’Africa Nera, vincitrice di una borsa di studio. E se n’era innamorato, felicemente ricambiato. Avevano preparato decine di esami insieme. Ma dopo la laurea, ormai imminente, lei sarebbe tornata a lavorare nel suo Paese e lui non sapeva cosa fare. Convincerla a rimanere in Italia? Impossibile: la ragazza voleva lavorare in un ospedale pediatrico africano. Era venuta a studiare in Italia apposta, non tornare a casa le sarebbe sembrato un tradimento. Pensa che sfortuna, scriveva lui: con tutte le ragazze che scappano dall’Africa, io sono andato a innamorarmi dell’unica che ha la voglia e i mezzi per tornarci. Il giovane medico mi esponeva i due scenari residui. Scenario A: si lasciavano. Magari non subito. Ma prima o poi la lontananza avrebbe diviso le loro strade per sempre. Scenario B: lui andava a stare in Africa con lei. Impensabile. I suoi genitori avevano fatto troppi sacrifici per vederlo sistemato. Suo padre gli avrebbe tolto il saluto e sua madre si sarebbe fatta venire come minimo l’infarto. La lettera finiva chiedendo consigli a me sul da farsi. Una responsabilità da niente. Io, che di solito rispondo alle lettere con un filo di indispensabile incoscienza, quella volta ebbi troppa paura delle conseguenze del mio giudizio e infatti me ne rimasi zitto e pensieroso.Sei mesi dopo arrivò una seconda lettera. La ragazza si era laureata ed era partita per l’Africa. Lui era ancora a Perugia. Si sentivano tutti i giorni: aveva investito in schede telefoniche l’intero «stipendio» familiare. Tornava a prospettarmi i due scenari, con le stesse parole della prima lettera. Non potevo più tirarmi indietro e così gli risposi sul giornale. Scrissi che doveva scegliere fra l’amore e la carriera. E che la scelta giusta era sempre la più coraggiosa. Avrebbe dunque dovuto chiedere a se stesso se ci voleva più coraggio a rinunciare a una donna amata o a un futuro professionale. E a vent’anni, di solito, si sceglie ancora l’amore. Non era detto che, andando in Africa, la sua storia con la ragazza sarebbe continuata a lungo. Ma i grandi amori sono lo strumento che la vita usa per inviarci dei segnali. Anche se fosse finita male, quella love story africana sarebbe comunque servita a mettere in moto il suo destino. Uno esce di casa per andare a fare due passi e poi magari finisce in pizzeria. Ma se non esce per andare a fare due passi, non andrà mai da nessuna parte, nemmeno in pizzeria. La meta iniziale di un viaggio non rappresenta il traguardo, ma lo stimolo per partire.Certo, andare a vivere in Africa non è esattamente come uscire a fare due passi. Sono trascorsi quasi nove anni e non ho più ricevuto altri aggiornamenti, perciò penso che alla fine la scelta «italiana» abbia prevalso e che al ragazzo non vada di farmelo sapere. Eppure ancora oggi, ogni volta che sento parlare di un medico italiano che si distingue in Africa per coraggio e abnegazione, penso al mio dottorino innamorato e un pezzo di cuore mi bisbiglia: scommetto che è lui.
MASSIMO GRAMELLINI

lunedì 6 luglio 2009

Benedetta sia la tua ostetrica!


Questa volta niente foto spettacolo come l'anno scorso...

siamo stati lontani

e ci siamo visti pochissimo...

ma...

BUON COMPLEANNO AMOOOOOOOOOOOOOO'!!!!

domenica 5 luglio 2009

Il nuovo decreto legge...

"Triste domenica, domani, col pacchetto sicurezza: i nostri schiavi resteranno in casa per paura delle ronde. Triste domenica, domani: dai pulpiti di ogni culto e religione gli uomini di ogni chiesa dobbiamo urlare contro una legge disumana e razzista. Spero di sentire un urlo più deciso dagli uomini e donne della mia chiesa cristiana e cattolica": lo ha chiesto stasera, celebrando messa , padre Teresino Serra, Superiore generale dei missionari comboniani. Il missionario, che la notte scorsa aveva già inviato alla MISNA la riflessione con cui si è aperta questa edizione speciale, ha detto ancora: "Uomini di chiesa, dai nostri pulpiti, domani, gridiamo che è un dovere morale rifiutare leggi che vanno contro Dio e contro il prossimo. Uomini di chiesa, cantiamo domani e sempre il salmo “ Dio protegge l’'orfano, la vedova e lo straniero”. Uomini di chiesa, come cantano i Nomadi, urliamo contro i faraoni di ogni colore e bandiera che brindano per la vittoria della loro legge con coppe piene di sangue innocente. Uomini di Chiesa, diciamo agli Italiani di usare il loro buon cuore, e di non lasciarselo avvelenare da leggi selvagge. Uomini di chiesa, saliamo sul balcone con il Santo Padre domani, durante l’Angelus, e gridiamo tutti insieme che quella legge non può essere accettata. Uomini di Chiesa, preghiamo Dio perché perdoni chi ci vuole spingere ad essere “ Caino contro Abele”. E voi, fratelli missionari, che avete amato l’Africa mentre eravate in Africa, amate l'’Africa del dolore e sofferenza arrivata in Italia. Fratelli missionari e sorelle missionarie, i più poveri ed abbandonati li abbiamo in casa: non lasciamoli soli. Domani, domenica, chiediamo perdono a Dio e contiamo le lacrime di chi è venuto a cercare un pezzo di pane ed un bicchiere d’acqua e viene trattato come delinquente. Contiamo le lacrime di chi si prende cura dei nostri bambini, anziani ed ammalati ed ora, improvvisamente, deve nascondersi e mangiare il pane duro della paura e del rifiuto"

giovedì 2 luglio 2009

Il settimanale Vanity Fair ha pubblicato questa lettera inviata da Jovanotti al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in vista del G8.

Presidente Berlusconi,sono un cantante, l’ultima persona al mondo autorizzata a parlare di povertà estrema. Sono un privilegiato, un po’ viziato, e tendo all’egocentrismo, ma da anni sostengo le iniziative per conseguire gli obiettivi del millennio. Oggi approfitto dell’ospitalità di Vanity Fair per scriverle questa lettera, a nome di quelli che difendono quegli obiettivi e hanno argomenti molto seri e credibili per farlo. Loro ci mettono il lavoro, io la visibilità. Si avvicina il G8 e l’Italia è di nuovo il Paese ospite, dopo esserlo stato nel 2001 a Genova. In quell’occasione lei fu promotore del Fondo globale per la lotta all’Aids, tubercolosi e malaria. Le sue iniziative influenzarono gli altri grandi. Grazie a quelle decisioni, oggi ci sono migliaia di bambini in più nelle scuole africane, e quei bambini saranno i giovani che guideranno lo sviluppo dei loro Paesi.L’Italia si distinse davvero, ancora una volta: come solo noi sappiamo fare, ci dimostrammo generosi e attenti alle emergenze del prossimo. Poi però le cose sono cambiate; gli impegni presi, e mantenuti per un paio d’anni, sono stati disattesi. Si potrebbe dire ..Peccato! e chiuderla lì, ma non rispettare un impegno di questo tipo non è come smettere di pagare la rata di un televisore: perché muore molta gente la cui vita dipende proprio da quella promessa di denaro. I morti non protestano, però accade qualcosa di irreparabile. Si spengono speranze, si lasciano crollare prospettive di sviluppo possibile, si uccidono sogni e si indeboliscono intere comunità. Il Fondo globale per la lotta all’Aids stabilisce un budget in base alle promesse di pagamento dei governi, e in base a quel budget acquista medicinali, prepara il personale, costruisce strutture, progetta il futuro. Se questi soldi non arrivano, crolla tutto, e viene meno l’energia vitale che è necessaria a sostenere la fiducia delle persone.Le organizzazioni non governative fanno molto, come pure i missionari, raccogliendo le donazioni spontanee che arrivano dalla nostra parte del mondo. Ma solo con l’impegno della politica al più alto livello si può sperare di raggiungere i famosi obiettivi del millennio. Una sua iniziativa al prossimo G8, allora, può essere determinante. So bene che rispettare gli impegni non è semplice in un momento come questo, ma tagliare gli aiuti ai Paesi poveri durante una crisi economica globale è tra le altre cose anche un errore politico. Per le nostre economie nazionali quegli aiuti sono un piccolo sforzo (che non grava sulle tasche dei contribuenti, è importante dirlo), mentre a quei Paesi, proprio in un momento di crisi economica globale, permetterebbero di andare avanti, di mettersi al passo con i processi globali, di affacciarsi al mercato mondiale. E in quel mercato ci siamo anche noi, con la nostra economia. Le ricordo poi che le politiche di cancellazione del debito e di lotta alla povertà in questi anni hanno dato moltissimi frutti. Se lei a L’Aquila, città che oggi è simbolo di emergenza e di solidarietà, ristabilisse il suo ruolo personale di capofila dei leader impegnati nella lotta alla povertà estrema, non farebbe un gesto di carità (che non spetta alla politica) ma un grande gesto di giustizia e di patriottismo.Che cosa c’entra il patriottismo con gli aiuti a gente di altri Paesi? Io un’idea ce l’ho, provo a sintetizzarla. Lei ha sempre dichiarato di tenere in altissima considerazione i bisogni e i sogni delle nuove generazioni. I ragazzi – lo sa perché ha figli giovani, e perché ha ancora una grande energia – hanno bisogno di orizzonti ampi per immaginare il proprio futuro, per trarre forza da investire nella progettazione del domani. Non è una questione di destra o di sinistra, ha a che fare con quel terreno condiviso (il common ground di cui parla spesso il suo amico Obama) su cui si fonda la forza di un Paese. Crescere in un Paese che si fa promotore di una politica di aiuti internazionali nuova e forte, indipendente ma inserita in un progetto mondiale, che guardi al futuro del pianeta con fiducia e speranza, è ciò di cui le nuove generazioni hanno bisogno. Ne hanno bisogno i nostri giovani: per credere in se stessi, per non sentirsi prigionieri di una visione del mondo cupa e cinica che non regge più, che non seduce più nessuno, perché porta alla paura, e la paura è nemica di ogni genere di sviluppo. Se lei al G8 aumenterà il contributo dell’Italia, ristabilendo il suo ruolo di capofila nella lotta alla povertà, permetterà al Paese di sentirsi orgoglioso. E anche se il Paese intero non reagirà direttamente a quella scelta politica, ne trarrà un beneficio morale. Non è poco. Qualche anno fa lei creò un partito che, con un’intuizione delle sue, chiamò Forza Italia. Con quel nome ha sbaragliato il campo della politica e coinvolto milioni di italiani. Ora potrebbe allargare l’inquadratura e proporre la nascita di Forza Mondo. Sarebbe una grande idea, l’annuncio di un nuovo miracolo. Servirebbe a salvare vite umane e a restituire dignità al ruolo della politica, che è anche quello di evitare che bambini possano morire per malattie facilmente curabili.Oggi la povertà estrema può essere sconfitta. Lei può fare moltissimo al prossimo G8, signor presidente. È una grande occasione per l’Italia. Da italiano felice di esserlo, le chiedo di riportare gli obiettivi del millennio al centro del tavolo di discussione. So di essere un cittadino privilegiato e non un militante sul campo, un medico, un operatore umanitario: approfitto dell’ospitalità di questo giornale per parlare a nome loro. So anche che questo è un argomento con poco appeal elettorale. So che la gente spesso cambia canale quando sente parlare di Africa. Ma le cose stanno cambiando, e hanno iniziato a cambiare anche grazie alle sue scelte in quel G8 del 2001. Si tratta di riprendere quel discorso e di portarlo avanti. Di realizzare i sogni traditi. Grazie, presidente Berlusconi.

Jovanotti