giovedì 9 luglio 2009

"Grazie per gli aiuti ma impareremo a cavarcela da soli"

KOTIDO (UGANDA)Piove infine sulla savana della Karamoja. La terra rossa diviene fango, le montagne sullo sfondo scompaiono, i bambini pastori restano a guardare le loro mucche piccole come pecore immobili tra gli arbusti. E’ tutto quel che hanno, tutta la loro vita, la loro ricchezza. Niente scuola, niente giochi, niente famiglia: solo mucche, capre, una pelle rinsecchita per giaciglio e la disciplina dei più grandi, degli anziani. Le aule sono un miraggio oltre l’orizzonte. Qui, nel Nord-Est ugandese, l’alfabetizzazione è all’11%, (66% la media nazionale), il kalashnikov è spesso ancora lo strumento della legge tribale e la mandria è la misura della ricchezza e la dote della sposa: per la mucca si uccide, per la mucca si vive, come avevano scoperto i primi missionari quasi un secolo fa, e da allora razzie e sparatorie per rubarsi il bestiame non sono mai davvero finite.
Siamo a trecento chilometri dalla capitale Kampala - vicini al confine con il Kenya, in un’area grande come Piemonte e Liguria insieme, con un milione di abitanti e 1.200.000 mucche - ma per arrivare ci vuole una giornata di sobbalzi lungo strade sterrate. Qui è nato Peter Lochoro, il responsabile di tutti i progetti dell’ong italiana Medici con l’Africa Cuamm in Uganda, unico di otto fratelli a essere andato a scuola: «E’ il privilegio che mio padre ha concesso a un solo figlio di ognuna delle sue tre mogli». Sette chilometri a piedi per andare e sette per tornare ogni giorno, poi le superiori lontano da casa, l’università, la borsa di studio in Gran Bretagna, un’eccellenza confermata a ogni passo da quando «bambino, ho visto i medici bianchi del Cuamm curare le persone del mio kraal», il villaggio nomade spostato al ritmo del pascolo degli armenti.
La storia di Peter realizza un ideale dell’aiuto allo sviluppo: la sostenibilità. I responsabili sanitari come lui sono ancora insufficienti a formare una classe sociale capace di guidare il Paese oltre l’emergenza cronica che dura da mezzo secolo; eppure grazie a questi medici africani l’idea dell’autosufficienza non appare più un’utopia occidentale, ma un progetto realizzabile, anche se non vicino: «L’errore dei Paesi sviluppati è spesso quello di progettare aiuti senza prima venire a vedere cosa e come fare. Fateci fare da soli: lasciateci le responsabilità, seguiteci magari, ma fateci affrontare le cose da soli, cosicché sul lungo periodo riusciremo a essere autonomi.
Non cercate di sostituirvi alle capacità e alla volontà degli africani pur se spinti dall’altruismo: ricordatevi che prima o poi voi andrete via, mentre noi rimarremo». Per questo molti responsabili delle organizzazioni umanitarie chiedono un impegno che vada oltre l’emergenza, l’immediato. «E’ giusto che l’opinione pubblica e i finanziatori occidentali si aspettino risultati, ma come si può risolvere una situazione grave (malattie, analfabetismo, disparità sessuale) in un anno o anche tre? Perciò chiediamo un impegno lungo - dieci, quindici anni - per mostrare che le cose possono essere cambiate».
«Fiducia controllata», la definisce un medico che lavora qui da quarant’anni: «Ci vorranno ancora un paio di generazioni prima che ci possa essere un completo passaggio di consegne» e la nascita di una mentalità nuova, in un Paese che oltretutto raddoppia i suoi abitanti ogni 15 anni (30 milioni adesso, oltre 60 entro il 2025). Serve un cambio di volontà anche da parte del governo che «destina il 22% del Pil alla Difesa e alla Sanità il 9%, otto dollari l’anno procapite; ne servirebbero come minimo 24 a testa», calcola Peter Lochoro. In queste situazioni difficili l’impegno individuale risalta e fa davvero la differenza, ma non ha ancora la forza di portare con sé un cambiamento generale. «L’Africa sembra un asilo senza futuro», scappa detto a un missionario mentre guarda la distesa di bambini e giovani madri in paziente attesa nel cortile dell’ospedale.
STEFANIO CITATI

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